Le opere soffrono la solitudine del maratoneta?

Ho sempre amato, negli inglesi, la capacità di distinguere nettamente la solitudine ricercata da quella subita e il saperlo fare sin dalla scelta del vocabolo con cui designarle. Mi chiedo se non sarebbe più facile accettare la condizione potendola definire correttamente. Del resto, una parola nasce dalla consapevolezza e, in ultima istanza, da essa può partire la ricerca di una soluzione.

Le opere d’arte delle esposizioni tradizionali nei nostri musei sono sole per troppo tempo. Restano lì appese a prendere polvere per mesi, senza che la luce che le anima sia carpita da occhi interessati. Gli afflussi ai musei sono ben definiti da un grafico a gobba di cammello. All’inizio e alla fine di una mostra c’è sempre un picco di visitatori che immancabilmente crolla nei mesi centrali. Questo significa che per mesi le opere possono crucciarsi di sentirsi sole, nel mezzo di una maratona silenziosissima. I dati forniti alla fine di una esposizione riportano sempre il numero di visitatori complessivo, mai la media giornaliera: analizzandola, spesso ci si renderebbe conto dello spreco. La logistica di una mostra è monumentale, così come i costi; quindi si cerca spesso di far succedere più date in sequenza, per rendere fruibile l’evento a un numero maggiore di visitatori.

Si potrebbe migliorare, e di molto. Una soluzione può essere la flash exhibition: le opere viaggiano continuamente e le tappe sono brevissime, al massimo un mese, ma anche meno. In questo modo, il visitatore ha la sensazione di appuntamento immancabile, di proposta attualissima e imperdibile: la maratona si fa corsa. Nulla di frenetico; si annullano i pomeriggi fiacchi. Questa che sarebbe una possibilità conveniente per le grandi mostre, è di fatto una necessità imprescindibile per le esposizioni di giovani artisti. Così facendo le opere divengono parte di un percorso fluido, che permette una fruibilità e una visibilità maggiori. I giovani artisti spendono moltissimo tempo nella fase promozionale, a discapito della produzione di nuove opere, della condivisione di stimoli e ricezione di nuove tendenze. Liberarli dalla necessità continua di intercettare nuove piazze, inserendoli in un circuito efficiente e in continuo movimento, farebbe a loro e al pubblico un pregevole servizio.

Ho messo in pratica questa mia teoria: di recente ho curato una mostra per la quale ho previsto tempi di esposizione non superiori ai quindici giorni per location. Anche quando mi sono stati offerti spazi molto interessanti per periodi più lunghi, ho rifiutato, e sono certo che gli artisti che hanno partecipato hanno compreso e condiviso le mie ragioni. L’unico modo per realizzare un sistema di questo genere è appoggiarsi ai fermenti più attivi dell’arte contemporanea italiana. Mi riferisco alle associazioni sommerse, ai centri sociali autogestiti, agli eventi autopromossi, svincolati da quei formalismi e servilismi così infantili, nel loro continuo chiedere permesso e accattonare consensi. Coinvolgendo minuscoli e attivissimi collettivi, si può contare sul loro entusiasmo e su una rete fittissima che copre tutta la penisola. Le opere trovano una caldissima accoglienza, un pubblico motivato e allestitori meticolosi.

L’Italia vive artisticamente un periodo non differente dal post dittatura franchista della Spagna dei tristemente lontani anni Settanta. Se allora Almodòvar si divideva tra la regia e il palco su cui impugnava il microfono dall’alto di zeppe chilometriche, ora quel coraggio è un ricordo e una cicatrice. Il senso profondo della ribellione sembra sfogarsi in cinico nichilismo, in autolesionismo passivo. Fortunatamente c’è un sottopelle vibrante ed affamato. Molte delle microgallerie domestiche languono sotto il volo famelico di avvoltoi, in attesa che l’ennesima bolletta da pagare faccia scattare uno sconto disperato. Alcuni pittori si rifugiano in casa, non aprono più a nessuno. Molti smettono, abbandonano, identificano l’arte con la parte di sé che non permette un inserimento conforme: sono creativo, quindi non troverò mai un lavoro. Tremendo. Rovesciata è anche peggio: smetto di far arte, mi accetteranno e pagherò le bollette. Sono quelli i nostri veri artisti e quasi nessuno sa o sospetta che esistano. Con fatica, porta dopo porta, sono andato a scovarne alcuni e, credetemi, il post dittatura italiana, almeno nell’arte, è una realtà.

Sandro Fracasso


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