Pensare l’ordine della forza

Trovandoci di fronte ad un momento celebrativo di carattere pubblico, sentiamo l’obbligo in quanto cittadini di pensare un tale evento. Pensare un evento di rilevanza pubblica apre la possibilità di interrogarsi e dunque di interrompere i traffici ordinari dei pensieri, alla maniera in cui Don Lorenzo Milani proponeva ed insegnava la lettura dei giornali nelle scuole: interpellare la storia nel suo farsi, in quanto soggetti in essa immersi e da essa attraversati. Mai incolumi né immacolati.

Condurre la riflessione sulle giornate del 28 e 29 settembre significa anzitutto chiedersi quali sono i soggetti, gli oggetti, i destinatari ed il contesto di questo momento celebrativo di portata nazionale che interessa la città di Ferrara. Può risultare banale, ma intraprendere un dibattito del genere, significa trasformare ciò che viene passato alla stregua di un dato neutrale (il momento festivo nazionale delle forze dell’ordine) in un evento storicamente determinato: quali rapporti sociali e materiali lo costituiscono? Nella convinzione che ciò che si produce storicamente non può mai essere una datità neutra, un fatto, dal quale poi possa avere inizio la riflessione. Quello che viene assunto come dato inesorabile, un qualsiasi punto della storia che si voglia isolare, ha già, invece, una propria genesi nel mondo, rivela o nasconde la trama di relazioni delle quali va a comporsi, impone di essere pensato come il prodotto di energie e di discorsi, di pensieri e di azioni che vanno indagati. In fondo, pensare la storia come il prodotto dell’agire umano è, marxianamente, pensarla trasformabile: frutto di pratiche costruite e a propria volta decostruibili e modificabili, una volta comprese.

Pensare date come quelle del 28-29 Settembre, significa – e qui si innesta l’esigenza di scrivere questo comunicato – svolgere un’operazione dialettica tramite la quale il negativo fotografico, il non detto e il non pensato, l’altro rispetto all’autocelebrazione, viene portato alla luce. Non solo, dare voce al residuo insistente della macchina autocelebrativa è una maniera di rendere onore alla vita offesa e dimenticata; ma di più, quando si fa interagire l’atto di autocelebrazione con il negativo da esso prodotto e rifiutato, tutto il quadro d’insieme viene a modificarsi investito da un nuovo processo dinamico.

I retaggi arcaici di sacralità che colorano l’aura delle manifestazioni alle quali assisteremo nei prossimi giorni, appaiono così terribilmente grotteschi agli occhi di noi cittadini ferraresi ed italiani: è necessario invece scendere da questi falsi altari di patria, è necessario denudare la “cattiva coscienza” sulla quale si basano ancora le ideologie del potere. Ideologia, intesa qui nel suo senso più vero: quando l’espressione di una coscienza parziale e faziosa, si erge a coscienza assoluta. Sintomo tremendo delle mistificazioni che denunciamo è, a titolo di esempio, il fatto che assistiamo a funerali solenni ed onori di stato quando un uomo in divisa cade per amore di patria e per servire i cittadini – assumiamo volutamente questa retorica – mentre tutti noi civili dobbiamo lottare anni ed ancora anni affinché gli abusi di potere commessi con quella stessa divisa, simbolo del servizio allo Stato, i crimini commessi in veste di dipendenti pubblici vengano almeno giudiziariamente perseguiti con la stessa energia e solennità con le quali si elargiscono medaglie e promozioni. Purtroppo non serve una carica eversiva di disinformazione, per constatare il dispiegarsi di una barbarie raccapricciante: pensiamo al massacro della scuola Diaz, di Bolzaneto e così l’intero G8 di dieci anni fa, con le tristi vicende di reclutamento e promozioni, pensiamo al mal-trattamento somministrato da Napoli a L’Aquila fino ai compagni valsusini, passando per le lotte degli studenti, dei precari, dei lavoratori. Così spesso all’ordine del giorno, sono le storie di repressioni che soffocano ed umiliano la manifestazione libera ed organizzata del dissenso. Pensiamo a quelli che dovevano essere “ordinari controlli di polizia” a ragazzi ed adulti e che sono diventate cronache di omicidi, di pestaggi e di torture da parte degli agenti di polizia. Un grado zero di inciviltà e di violenza, di corruzione e di fascismo, che ci lascia appena la dignità di ripetere “SE FOSSI STATO AL VOSTRO POSTO.. MA AL VOSTRO POSTO NON CI SO STARE”.

E’ necessario discutere l’ordine della forza per mezzo del quale la retorica della tutela, della pace sociale, della sicurezza e dello stato eccezionale di crisi, camuffano le stragi di Stato, le repressioni dei civili, il vilipendio della Costituzione e della Memoria. Anche se rimanessimo “al di qua” rispetto una critica strutturale e libertaria delle forze di polizia, basti osservare che queste ultime, in forza della legge, non dovrebbero essere strumento armato né del proprio personale arbitrio né delle scelte di governance, ma un servizio pubblico retribuito da e responsabile nei confronti dello Stato: ossia dell’insieme dei suoi cittadini. Allora l’adempimento o meno di questo principio democratico funge da misura e da prova empirica di quanto la violenza possa essere costitutiva del sistema attuale, mostrandoci una volta di più le sue interne contraddizioni.

La consueta autocelebrazione dell’ordine della forza ci impone l’obbligo morale e politico di rilevare il residuo, l’impensato e il non detto di quelle vite offese e dimenticate a causa dell’uso indiscriminato della violenza; violenza sempre più sottile, non confinata a casi eccezionali – pertanto mai giustificabili -, ma che si fa pratica ordinaria proprio in forza del vincolo che stringe con la normalizzazione e la generalizzazione dell’emergenza e dello stato di crisi. Su questo piano si leggono anche la normativizzazione delle pratiche di vita e i continui tentativi di insinuarsi nella produzione del vivere quotidiano. Tanto più che le nuove legislazioni in materia europea sull’esercito unico, così come quelle relative alle altre Commissioni parlamentari, sottraggono sempre più la cosa pubblica al controllo democratico, delegando con un meccanismo sempre più differito la rappresentanza che finisce per essere nomina, ossia palese deliberazione dei governanti prostrati alle logiche capitalistiche globalizzate.

In favore di queste istanze, prendiamo le distanze da un tipo di approccio a tali questioni riassumibili negli assunti “non bisogna fare di ogni erba un fascio, basta espellere le mele marce dal sistema ecc.”. Un simile atteggiamento è il frutto di una semplificazione e di una mistificazione del problema che impedisce di leggere la realtà che stiamo vivendo nel suo insieme di pratiche e di tendenze latenti e generali, le quali non possono essere cancellate dal nostro sguardo isolando e al tempo stesso distogliendo l’attenzione sui singoli casi particolari: come se questi ultimi non fossero parti integranti di un più ampio sistema di omertà, di protezioni e di coperture. Non si tratta qui di mettere innanzi ad un tribunale morale i comportamenti virtuosi e quelli condannabili delle forze dell’ordine e di farne bilanci e verdetti.

Si tratta piuttosto di seguire con l’occhio gli accadimenti della prima e della seconda Repubblica italiana, di analizzare nella loro inesauribile complessità i contesti ed i loro mutamenti nei quali gli abusi di potere vengono denunciati oppure normalizzati, vederne i costrutti mediatici che li accompagnano, la produzione legislativa e le pratiche giudiziarie, gli assetti geopolitici e le fasi del capitalismo, le relazioni con la società civile. Non per perderci in dispersivi rivoli teorici, ma per fare in modo che i nostri “sì” e i nostri “no” siano gridati con ferma e lucida consapevolezza. Da qui proviene il nostro dissenso indignato alla festa della Polizia di Stato che si terrà a Ferrara dedicata a Federico Aldrovandi: non è battendo questa scorciatoia mediatica che si ricostruisce la delicata relazione tra una cittadinanza ferita e la Polizia di Stato che non si è ancora assunto le proprie responsabilità pubbliche, tanto più nella attuale moltiplicazione agghiacciante di vicende come queste.

A che pro tutto questo? Perché è ancora tutto in gioco, perché a coloro cui lasceremo questo mondo sia data la possibilità umana della giustizia, perché siamo responsabili di ciò che viene ad essere e di ciò che potrebbe essere e non sarà: allora muoviamo tutto il nostro impegno e desiderio affinché un altro mondo sia possibile, fin da ora!

————————————————RESTIAMO UMANI——————————————–


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